Diamo spazio (e fiducia) alla trasformazione

Commettiamo spesso l’errore di considerare i linguaggi non verbali come “naturali”, anziché “culturali” cioè appresi per “appartenenze” sociali. Questa variabilità di significati può creare fraintendimenti, equivoci e problemi nella comunicazione interculturale fino a generare il fallimento dell’efficacia comunicativa.

Va detto anche che la globalizzazione ha evidenziato che non vi sono culture “pure” ma piuttosto culture ibride, meticce e frutto dell’incontro. L’identità personale, quindi, non va considerata come qualcosa di statico, ma come qualcosa di dinamico e in perenne evoluzione, figlia e frutto del contatto con l’altro.

Dice Elena Garcea, 1996, che le società “sono multiculturali se mantengono uno stato di indifferenza o di tolleranza verso le varie culture, mentre diventano interculturali se stabiliscono rapporti interattivi tra le diverse realtà presenti”.

La chiave di volta diviene la necessità di fondare e istituire un dialogo, sapere di dover cambiare continuamente ma anche costruire uno “spazio terzo” di fiducia e reciproca trasformazione in cui ognuno possa essere disponibile al mutuo cambiamento.

Cosa succederebbe se osservassimo il mondo con una formae mentis plurale, dinamica, aperta? Forse lo semplificheremmo eliminando la base di contrasto che oggi è dominante? 

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pubblicato il 09/12/2019 ultima modifica 09/05/2022