La resilienza è la nostra forza

Il fenomeno migratorio comporta due percorsi. Il “Nostro” fatto di accettazione, di accoglienza, di integrazione o di rifiuto, di discriminazione, di separazione; e il “Loro” fatto di assimilazione, di inserimento (sociale, scolastico, lavorativo…), di apprendimento (delle nostre regole, della nostra lingua…) o di conservazione (delle proprie abitudini) e di difesa identitaria.

Il punto è che in entrambi i casi si attiva un processo di resilienza che è sostanzialmente la capacità di elaborare un’interferenza al proprio status e di tornare ad essere “più o meno” se stessi.

A dispetto di ogni resistenza, di ogni forma di protezione e autodifesa, un cambiamento si verifica comunque e ciascuno subisce una variazione di stato. Poco importa se sia stata consistente o minima, il punto è che c’è stata. 

Non a caso, per definire questo processo, si usa un termine nato per descrivere un fenomeno fisico: resilienza è “la resistenza a una rottura dinamica determinabile con una prova d’urto”. Chi vive la prova d’urto (sia “Noi” sia “Loro”) cerca di contrastare il cambiamento per restare come si è ma, poiché l’incontro con l’altro comunque è avvenuto e ha innescato un processo dinamico, evolutivo, il soggetto subirà un cambiamento sostanziale. Pur se sostanzialmente si ritorna a come si era in principio, si sarà verificata una variazione.

Il risultato è quello che avviene con l’intercultura: uno scambio.

In psicologia, usando gli studi di Grotberg (1995), resilienza indica la capacità di affrontare, superare e uscire rinforzati da esperienze negative ovvero è il processo con cui individui, famiglie o comunità, in situazioni di difficoltà, resistono a un evento negativo e mantengono il proprio senso di padronanza, attivando strategie di adattamento (coping). Ma questo mettere in atto meccanismi psicologici adattativi per fronteggiare problemi personali ed interpersonali, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress ed il conflitto, è quello che succede anche quando due culture entrano in contatto.

Le due culture di partenza restano apparentemente le stesse ma al loro interno, ciascuna a suo modo, ingloberanno una zona grigia che è la variazione frutto dell’incontro, della conoscenza dell’altra cultura.

Il processo non va pensato come unitario e omogeneo. Al contrario è qualcosa che mette alla prova ciascun individuo e le sue capacità personali di adattarsi a circostanze variabili: non esiste un singolo modo di conservare l’equilibrio ma piuttosto una molteplicità di reazioni differenti. Ciascuno ha una diversa resistenza alla pressione e può più o meno essere sensibile alle circostanze e dunque usare un repertorio di possibilità comportamentali per giungere alla risoluzione dei problemi.

Il termine resilienza, evidentemente, non fa riferimento a una situazione statica, quanto a un processo attivo fra la persona e il contesto sociale, relazionale, istituzionale.

Allo stesso modo, quando due culture si incontrano e mescolano, il risultato non è univoco ma evolutivo e temporaneo e ciascuno lo interpreta a suo modo. Tutti gli sforzi che mettiamo in campo non sono mai assoluti, definitivi, acquisiti una volta per tutti, ma variano man mano che cambiano le circostanze, le sfide, i contesti, gli attori sociali.

Se quindi la resilienza (con la sua capacità di adattarsi a contesti nuovi) va intesa come la nostra forza, ogni contatto con culture diverse dalle nostre va concepito come temporaneo e dinamico. Non un dato di fatto ma un costante working in progress.  

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pubblicato il 01/05/2018 ultima modifica 09/05/2022