Attività di Ricerca

Caterina Lavarra, mossa dall’interesse per il problema del miracolo e delle alternative al santo, in continuità con i temi sviluppati nella sua tesi di laurea, ha indirizzato inizialmente la sua analisi verso la «cultura folklorica» (credenze, rituali, comportamenti, rappresentazioni religiose tradizionali… ) nella Gallia merovingia, un fenomeno molto vasto e complesso, di cui un epifenomeno è la «religione popolare».

La lettura della documentazione, doppiamente indiretta, perché scritta e tutta di origine clericale, inserita in un contesto necessariamente interdisciplinare e comparativo su scala europea, è stata affrontata sia con ipotesi di lavoro che hanno tenuto conto delle condizioni materiali, sociali, mentali della sua produzione sia con l’adozione di strumenti concettuali e di dati mutuati dalle scienze sociali, in particolare l’antropologia.

Percorrendo la pista della cultura folklorica e dei suoi rapporti con la cultura clericale, si è focalizzata l’attenzione sul grandioso tentativo operato dalle autorità ecclesiastiche del tempo di mettere a punto e di rendere dominante una concezione e una pratica simbolica cristiana della guarigione, tramite il ‘controllo’ sia della «religione popolare» nei suoi aspetti terapeutici, sia delle cure mediche. Così, accanto al discorso ideologico clericale, enucleabile nella proposizione di un modello normativo ben preciso che vedeva il sacro cristiano come il solo atto a garantire la guarigione, al tempo stesso del corpo e dell’anima, oggetto della ricerca è divenuto il pluralismo dei sistemi terapeutici nella società merovingia. Il potere di guarire non era, infatti, esclusivo appannaggio dei santi. Falsi cristi e falsi profeti, maghi, indovini, divini, caragi e medici  ‘contendevano’  tale potere ai santi personaggi cristiani.

In queste interazioni culturali complesse e contraddittorie, fatte di rapporti di esclusione, di resistenza cosciente, ma anche di influenze reciproche, di assimilazione e di sintesi originali, è stato così possibile individuare il primo momento della costruzione plurisecolare di quel complesso culturale-ideologico chiamato «cristianesimo popolare», ma anche ridare coerenza e dignità storica a modi di pensare e sentire precristiani e folklorici e a credenze tradizionali che le autorità ecclesiastiche del tempo, impegnate nello sforzo di attuazione del programma di evangelizzazione delle campagne, tendevano invece ad assimilare ad un coacervo di stranezze indecifrabili.

I risultati di questa ricerca sono confluiti in alcuni saggi su aspetti specifici del problema e in una monografia. Caterina Lavarra, allargando poi i suoi interessi ad altri periodi e ad altre aree geografiche, ha rivolto la sua attenzione al Mezzogiorno normanno, conducendo una riflessione ‘problematizzante’ sulle fonti di età normanna, in modo particolare su quelle narrative. Prestando attenzione alla specificità di ognuna di esse e ai meccanismi della loro ‘costruzione’ culturale e inserendo la loro lettura in un contesto necessariamente interdisciplinare, più ampio, globale, che ha tenuto in debito conto la visione generale del mondo e la mentalità degli uomini di quell’età, è stato possibile andare oltre il livello dell’analisi filologica per cogliere la ‘complessità nascosta’, e cioè l’intreccio tra le diverse forme di comunicazione sociale.

Forme di comunicazione che erano veicolate in vario modo. In parte dal linguaggio scritto e in termini più ampi dal linguaggio verbale e da codici culturali indipendenti da quest’ultimo: la percezione e l’uso del tempo e dello spazio, i linguaggi silenziosi dei gesti, dell’abbigliamento, dell’alimentazione, della ricchezza… Codici culturali mai neutri, profondamente diversi dai nostri, che nelle fonti ci colpiscono per la loro stranezza, ma che ci aiutano a comprendere meglio le strategie istituzionali e di potere nella loro reciproca dialettica con la società civile.

Nello sforzo, non semplice, di cercare di ricostruire, di rendere intelligibile, per quanto possibile, e di raccontare la complessità del reale, dell’intrigo dei contesti comunicativi, si è cercato di far luce sui meccanismi interni di interazione tra agire collettivo, comportamenti individuali e potere in alcune comunità urbane del Mezzogiorno normanno, evidenziando anche il problema dell’importanza del simbolico nel funzionamento dell’organizzazione sociale.

In una prospettiva storico-antropologica, l’obiettivo dell’analisi è stato quello di cogliere e spiegare l’articolazione e il significato culturale e sociale di alcuni riti e cerimoniali civici, ponendoli in connessione dialogica con il tema del potere. Potere che palesa la sua capacità di imporsi, di ‘mettere le mani’ sul tempo e sullo spazio della festa e della morte, occupandoli e organizzandoli, mobilitando gli individui ed incidendo sulle loro vite per farsi accettare e divenire consenso. L’attenzione si è così incentrata su una serie di comportamenti rituali inerenti: ad alcune morti ‘speciali’, socialmente significanti; all’esclusione dallo spazio sociale (i rituali pubblici di espulsione che sono tipici rituali di violenza collettiva); ai festeggiamenti in onore dei santi locali; alle cerimonie di grande effetto degli ‘ingressi’ solenni nelle città di personaggi di grande dignità sociale; alla comunicazione del senso della condizione sociale e dello status nelle gerarchie del potere.

Rituali collettivi sempre di grande ‘impatto’, perché indirizzati all’emotività, all’immaginazione dei partecipanti e degli astanti, e che veicolavano messaggi che venivano fruiti attraverso la vista, l’olfatto, l’udito e il tatto. All’interno dei rituali urbani religiosi o civili, che si palesano sempre come articolati sistemi di comunicazione per lo più non verbale, l’analisi ha così messo in luce aspetti meno indagati della comunicazione sociale, come il ruolo delle donne, l’utilizzazione culturale e simbolica del tempo e dello spazio sociale, dell’elemento sonoro e olfattivo, delle ricchezze, dei gesti, delle relazioni spaziali tra gli uomini, dei comportamenti umani, dell’abbigliamento, dell’alimentazione, delle res, cioè dei semplici oggetti, evidenziandone il valore simbolico, il loro significato. I risultati di questa ricerca sono confluiti in due monografie e in quattro saggi su aspetti specifici del problema.

Successivamente, Caterina Lavarra ha cercato di ricostruire le fasi evolutive ed involutive di un ente monastico a caratterizzazione aristocratica di antica fondazione: il monastero benedettino femminile beneventano di S. Maria di Porta Somma, trasformato nella prima metà del XIV secolo, per ragioni difensive, in residenza dei rettori pontifici e dei loro ufficiali, cioè nella Rocca dei Rettori, ancora oggi visibile.

L’indagine pur riservando particolare attenzione alle variegate e vivaci dinamiche urbane di Benevento nei secoli XI-XIII e ai rapporti del cenobio mariano con i nobili finanziatori e con gli altri nuclei di potere gravitanti sul territorio, ha evidenziato elementi interessanti sulla condizione femminile nel Mezzogiorno normanno, ed una nutrita serie di dati che danno un’idea efficace di quel che fu il potere di alcune donne in ambito monastico. L’analisi delle superstiti pergamene inedite del monastero  ha fornito elementi di particolare interesse sul badessato di Betlemme, figlia del conte Gerardo di Greci (un esponente di primo piano della nobiltà normanna, imparentato con gli Altavilla), che per più di 60 anni resse le sorti del cenobio mariano. Indotta molto probabilmente a prendere il velo dalle strategie familiari del suo gruppo parentale, in quanto la nobiltà normanna veniva avvantaggiata sul piano sociale dall’inserimento prestigioso di propri membri ai vertici di enti monastici, Betlemme, grazie alla sua longevità, assicurò al monastero, pur tra il turbinio degli eventi esterni, politici e non, una vita caratterizzata da una sostanziale continuità, priva per un lunghissimo tempo di rischi di frattura, cioè di occasioni di crisi innescate da un evento fisiologico quale poteva essere la morte della badessa in carica e l’elezione di una nuova badessa. Il che può aver contribuito a rafforzare la sua autorità, peraltro fondata su un forte potere familiare, sulle protezioni potenti del suo clan parentale e sul sostegno di altre famiglie aristocratiche normanne a lei legate da rapporti di solidarietà. Betlemme mostrò grandi capacità di governo e seppe attuare un’oculata politica economica puntando sull’agricoltura e sul notevole ampliamento del patrimonio terriero monastico. Durante il suo “regno” si attuò il crescente radicamento del cenobio mariano in zone rurali molto lontane dalla città del Calore, grazie a donazioni di provenienza feudale che contribuirono a incrementare notevolmente il patrimonio monastico. Ella, infatti, grazie a tali donazioni si creò, precocemente, un certo numero di dipendenze, vaste e articolate, dislocate in territori lontani da Benevento (il grosso delle acquisizioni si collocava nell’alta Irpinia, nell’attuale provincia di Avellino), in zone caratterizzate da attività agricole ampie ed estese. A questi vasti domini vanno aggiunti gli estesi possedimenti che erano già in possesso del cenobio nel territorio beneventano. Dunque, estensioni di terre, beni immobili, e chiese, a cui facevano capo una fitta rete di attività e un congruo numero di uomini. Oltre ai compiti relativi alla gestione del cospicuo patrimonio monastico, dalla cui buona conduzione dipendeva il benessere materiale della comunità, e oltre all’esercizio di prerogative di natura religiosa sulle chiese ad essa soggette, la badessa «Bethlem» doveva esercitare anche consistenti diritti e poteri nei territori extraurbani di sua competenza: diritti di signoria, poteri giurisdizionali di natura civile non diversamente dagli altri signori laici ed ecclesiastici del tempo sui loro possedimenti. Quello di Betlemme era dunque un potere ampio che traeva forza sia dalla qualità dei suoi legami familiari sia dai legami consolidati con alcune potenti famiglie della feudalità normanna, che non si spezzarono neanche dopo la sua morte. 

Grazie all’analisi delle chartae inerenti ai badessati successivi a quello di Betlemme è stato possibile ricostruire l’ulteriore processo di espansione del ricco e consolidato patrimonio della comunità monastica di S. Maria. Da esse appare chiaro che nel passaggio dall’età normanno-sveva alla prima età angioina il monastero riuscì a mantenere i rapporti di solidarietà da tempo consolidati, ad es.  con i signori di Flumeri, Trevico e Vallata, ma anche ad instaurarne di nuovi con altri esponenti di famiglie feudali (i signori di S. Angelo di Radiginosa nel territorio di Civitate), che esercitarono su di esso forme di controllo e nel contempo di sostegno con l’elargizione di ulteriori donazioni.

Attraverso il monastero di S. Maria di Porta Somma si stabilirono, dunque, ampi e costanti legami tra società cittadina e zone rurali, vincoli che restarono saldi e stabili nel corso del XII e per buona parte del Duecento.

A partire dagli anni Quaranta del XIII secolo, a causa anche delle tragiche vicende (il lungo assedio, la distructio e la depopulatio federiciane, l’assedio angioino) che segnarono la storia cittadina, il monastero di S. Maria di Porta Somma cominciò a vivere una fase di decadenza non solo temporale ma soprattutto spirituale, che si palesa con estrema chiarezza in una bolla del pontefice Bonifacio VIII dell’ 8 giugno 1302.

Quasi vent’anni dopo, una lettera apostolica, datata Avignone, 2 settembre 1321, inviata dal pontefice Giovanni XXII al rettore di Benevento Guglielmo de Baleato, arcidiacono di Fréjus e suo cappellano, decretava in maniera traumatica il trasferimento e la “dispersione forzata” delle monache di S. Maria, del patrimonio monastico e del relativo archivio in un istituto del medesimo ordine: il monastero di San Pietro intra muros. L’antico edificio monastico veniva invece trasformato, per ragioni difensive, nella Rocca dei Rettori.

I risultati di questa ricerca sono confluiti parzialmente in un saggio sul Potere monastico femminile nel Mezzogiorno normanno e in un volume, in corso di stampa, sulla storia del monastero.

Oltre a queste ricerche di grande respiro, la Lavarra ha condotto uno studio sull’immagine del Medioevo nella produzione letteraria dello scrittore francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907) che, alla ricerca di un’innocenza non contaminata, scelse il Medioevo come epoca in cui ‘emigrare’ lontano dalla vita alienante del suo tempo.

 L’evasione dal mondo borghese fu la drammatica risposta di molti intellettuali europei al progressivo affermarsi del ‘nuovo ordine’ tecnologico, all’involuzione imperialistica della borghesia (staccatasi dalle sue premesse rivoluzionarie e progressiste) così come si manifestava nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento.

Come Huysmans, i pittori preraffaelliti Dante Gabriele Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais, sostenuti dal critico d’arte John Ruskin, scelsero la ‘fuga’ verso il Medioevo. Paul Gauguin tentò invece di evadere dalla «società criminale, male organizzata» e «governata dall’oro» con la fuga nella ‘selvaggia’ Polinesia; Arthur Rimbaud in Africa…. Altri scelsero il suicidio come soluzione: Vincent Van Gogh, Wilhelm Lehmbruck.

Attraverso la puntuale analisi sociale delle opere di Huysmans si è potuto evidenziare che il suo medievalismo fu caratterizzato non solo dal miraggio di una civiltà medievale assunta a paradigma d’epoca sociale e religiosa per eccellenza (antitesi del «Rinascimento pagano e lussurioso»), ma anche dalla tendenza all’archelogismo, dall’esaltazione del canto gregoriano e della pittura dei primitivi, dall’amore per le diafane cattedrali gotiche.

Nel recupero ideologico del Medioevo cristiano delle crociate e delle cattedrali e in quello nostalgico (in Là-bas, ma soprattutto in La cathédrale) della storia della borghesia artigianale e mercantile, vista come il momento più ‘democratico’ della storia della sua classe, Huysmans ricercò le forme ‘etiche’ che pensava fossero alla radice del ‘mondo borghese’, la cui distorta ragione e il cui distorto ordine egli non amava sul piano storico. La ricerca è confluita nella pubblicazione di un saggio.

Di seguito è stata condotta anche una ricerca su Città e coscienza cittadina nel Mezzogiorno medievale (confluita nella pubblicazione di un saggio), nell’ambito della quale è stato affrontato il problema delle lotte intestine e i fenomeni del fuoriuscitismo e dell’esilio nella Benevento della prima metà del XII secolo. In riferimento al partire, al viaggiare, un vecchio adagio recita «partire è un po’ morire». Questo è tanto più vero per l’esilio. Un’esperienza che si manifesta nel duplice dato quantitativo del tempo e dello spazio e in una dimensione per lo più coercitiva che si esplica nel brutale, drammatico allontanamento dell’esule dal proprio mondo amato, intensamente vissuto e profondamente interiorizzato: lo spazio cittadino, fonte di integrazione e appartenenza, spazio gerarchizzato, denso di significati, esperienze, emozioni, contornato da un confine che difende dall’esterno, distante psicologicamente dagli altri luoghi, luogo per eccellenza.
L’esilio è dispersione e perdita, ma anche nuova condizione degli individui che si mettono in viaggio, degli individui esuli, sradicati, stranieri dovunque.

Altri centri d’interesse sono la storia locale e la storia della grande aristocrazia feudale del Mezzogiorno d’Italia. Impegnatasi dapprima in una ricerca sulla storia di Castellana (confluita nella pubblicazione di un articolo), un centro minore della provincia di Bari, sorto in età medievale e per secoli sotto la giurisdizione feudale e spirituale del monastero di San Benedetto di Conversano (il celebre Monstrum Apuliae), è passata poi ad occuparsi della grande famiglia feudale degli Acquaviva d’Aragona e dei loro stati in Abruzzo, Puglia e Campania.

Se la storia di questo nobile lignaggio appare segnata nella lunga durata, come quella di altre famiglie nobili del Mezzogiorno, da fasi espansione e di arretramento, da vere e proprie cesure e da momenti di ritrovata stabilità, nella ‘discontinuità’ la sua ‘tenuta’, cioé la continuità del potere feudale, sembra essere il risultato di complesse strategie condotte su diversi piani: familiare,  militare, sociale, culturale, politico, religioso. Riguardo al piano familiare basti pensare alla rete parentale che essi riuscirono a costruire tramite accorte alleanze matrimoniali, legandosi così in una rigida endogamia di livello alle famiglie della grande nobiltà regnicola ed extraregnicola: gli Orsini del Balzo, i della Ratta, i Piccolomini, i Pio di Carpi, i Caetani, i Lannoy, i Ruffo, i Ludovisi, gli Spinelli, i di Capua, i Gambacorta, i Pignatelli, i Carafa, i Caracciolo, i Sanseverino, i Filomarino, i Farnese, i Colonna, i Gonzaga di Mantova. Sul piano sociale, pienamente consapevoli di essere  un’antica e grande casata della feudalità provinciale, solevano vivere nobilmente, o meglio, come scrivono i trattatisti del tempo, vivevano «splendidamente al di sopra di tutti i baroni d’Italia» come segno di distinzione e preminenza sociale. Sul piano militare,  la casata fu connotata sin dal XII secolo da una tradizione di potere e da una spiccata abilità guerriera. Gli Acquaviva, d’altro canto, riuscirono ad accrescere in maniera notevole il proprio prestigio, soprattutto grazie al rinsaldo dei propri legami con le istituzioni religiose e alla propensione e all’interesse per le carriere ecclesiastiche che si sviluppavano nella corte di Roma. Il lignaggio acquaviviano per supportare il potere familiare, oltre che della dimensione religiosa, si avvalse anche della dimensione letteraria ed intellettuale: l’interesse per le lettere, l’arte, la musica costituì un altro elemento vocazionale che contribuì a rafforzare la ‘qualità’ familiare.

Su La Casa Acquaviva d’Atri e di Conversano sono stati realizzati  tre importanti convegni internazionali, dei quali Caterina Lavarra ha curato i relativi Atti, che hanno contribuito a delineare un’immagine a tutto tondo della casata Acquaviva, ma anche in parte del baronaggio meridionale e del ruolo da esso svolto nella storia culturale e civile del Mezzogiorno, evidenziando i legami che hanno sempre tenuto l’Italia meridionale pienamente inserita nel moto complessivo della società europea.

Attualmente è impegnata, in qualità di Direttore scientifico del Centro Ricerche di Storia ed Arte, nella realizzazione di un progetto scientifico di amplissimo respiro, che costituisce un lungo ponte culturale tra Puglia ed Europa: lo studio e la ricostruzione a livello digitale della Biblioteca del colto umanista e bibliofilo Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona, duca d’Atri e conte di Conversano, dispersa dopo la sua morte in istituzioni culturali italiane, europee ed extraeuropee, costituita da pregevoli manoscritti miniati, la cui ornamentazione fa di essi una delle espressioni più alte della miniatura rinascimentale.

Man mano che viene operato il ‘recupero’  di questo pregevole materiale librario, di notevole importanza dal punto di vista storico-culturale, paleografico, codicologico, miniaturistico, il Centro ne promuove la catalogazione e lo studio, operazioni finalizzate alla pubblicazione di volumi nella collana editoriale,  Gli Acquaviva tra Puglia e Abruzzi, della quale Caterina Lavarra è codirettrice insieme ai colleghi Francesco Tateo e Angeloantonio Spagnoletti. è anche curatrice dei volumi della collana (talvolta in cotutela), che gode regolarmente di finanziamenti straordinari del MiBACT.

 

Tre parole chiavi per definire le linee di ricerca: Medicina, Rituali, Aristocrazia

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pubblicato il 02/09/2013 ultima modifica 08/10/2018