Diversi da chi?

Siamo sicuri di non condividere con gli stranieri la diversità? Non è forse vero che continuamente diciamo io sono diverso da te, da loro, dagli altri?

L'identità come la cultura non sono definizioni assolute, determinate, confinate dentro una fotografia che non cambia nel tempo. Sono al contrario processi in evoluzione continua, elaborazioni che vengono personalizzate instancabilmente, anche senza una vera e propria consapevolezza.

Le società contemporanee sono plurali, cioè non sono omogenee, organiche, statiche, predefinite. Ospitano contrasti, differenze, sperimentano contraddizioni e la coesione sociale è fittizia. Esiste in teoria perché nella pratica si scontra con tutta una serie di variabili che incidono sulla presunta coerenza che le si attribuisce.

Nel 1893 il sociologo e antropologo Émile Durkheim introdusse il termine "Anomia" per definire il "disorientamento" che un cambiamento sociale non metabolizzato dai componenti di una comunità produce nella convivenza sociale, un venir meno del cosiddetto ordine costituito, un'incrinatura della coesione sociale che si ritiene esistere attorno a noi.

Questo cambiamento, questo disorientamento tra le aspettative normative e la realtà vissuta tipica della realtà sociale, è un po' quello che viviamo noi quando ci confrontiamo con il portato (culturale, sociale, linguistico, religioso, alimentare, di usi e costumi) di uno straniero. 

Avvertiamo un cedimento dell'ordine e della coesione che riteniamo esistere in noi e attorno a noi.

Durkheim parlava anche di "coscienza collettiva" come "insieme di credenze e sentimenti comuni alla media dei membri di una società". Ecco, riteniamo che lo straniero vada ad agire proprio lì, incrini la coscienza collettiva. Il punto è che partiamo da un presupposto errato: questo insieme di valori è mobile, liquido, volubile, tutt'altro che statico e invariabile.

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pubblicato il 13/04/2018 ultima modifica 09/05/2022